Salvatore Fornarola è nato a Penne in provincia di Pescara il 7 luglio 1936. Dal 1961 si è trasferito a Fermo, nelle Marche, dove ha lavorato e vissuto fino all’ultimo giorno, il 29 giugno 2014.
I ricordi dei primi anni sono quelli di una famiglia numerosa (era il terzogenito di otto fratelli), riscaldata dal “calore di mia madre” e sostenuta dal lavoro del padre, Pasquale, che era giardiniere e custode nel parco della Villa Caracciolo di Penne e che poteva “distrarre” i propri figli con il privilegio di qualche visita alla villa o qualche passeggiata nei viali circostanti, dove Salvatore rimase affascinato dalle statue in terracotta, a grandezza naturale, che ornavano il parco.
Nella città di Penne esisteva anche un’importante scuola d’arte a cui Salvatore venne iscritto a soli dieci anni, nella sezione “legno”. È lo stesso Fornarola, in un’intervista al Resto del Carlino del 3 Febbraio 2012, a ricordare la propria infanzia: “le mie scelte frutto di passioni altalenanti, di situazioni contingenti, la seconda guerra mondiale. Qualche anno di scuola elementare recuperato dopo la fine del conflitto, l’esperienza presso un falegname a costruire carrozze giocattolo”.
È sempre l’artista a fissare un momento della propria infanzia, quando nel 2002 in occasione della partecipazione alla mostra “Profezia dell’arte nella memoria della santità. Per una nuova iconografia di San Gabriele dell’Addolorata”, così scrive: “Mia madre, appena finita la guerra, mi portò a piedi, da Penne al Santuario. Partiti di sera camminammo per tutta la notte cantando lodi e stornelli per il Santo. Arrivammo all’alba. L’ultimo tratto per entrare in chiesa la comitiva lo percorse in ginocchio in segno di devozione. Quindi assistemmo al rito religioso. Seguì la visita agli “ex voto”. Rimasi stupefatto nell’ammirare le scene illustrate delle guarigioni miracolose. Espressione anche oggi significativa della pittura religiosa popolare. Ricordo anche un altro episodio. Mio fratello, da bambino, contrasse una malattia a quel tempo inguaribile. La superò e mia madre, per gratitudine al santo, lo vestì per una anno con il saio nero di S. Gabriele. Tutta la mia famiglia è rimasta sempre devota del santo. Nell’opera pittorica ho scelto di rappresentare l’immagine del Gran Sasso, non solo perché alle sue pendici è situato il Santuario, ma soprattutto perché considero il santo “Gran Sasso di Fede”.
Ma il calcio era la sua grande passione che lo portò ad abbandonare la scuola e contemporaneamente a frequentare la bottega del ceramista Gizzi (1954) originario di Castelli in Provincia di Teramo, uno dei borghi più belli d’Italia, e famoso in tutto il mondo per la produzione di maioliche: “la verità è che quella attività mi avrebbe consentito di avere un giorno libero alla settimana per potermi allenare. Lavoravo 12 ore al giorno per pochissimi soldi, perfezionavo la mia abilità nel fare copie dell’antico e scappavo ad allenarmi. Fino a quando una mandibola spaccata, per una caduta in bicicletta, interruppe il mio sogno di fare il calciatore”.
L’obbligo imposto dai genitori di frequentare la bottega di un artigiano fu fondamentale perché gli permise di acquisire un patrimonio di esperienze spendibile sul mercato del lavoro.
Scrive Paolo Levi sulla rivista Archivio n. 1 del 2012 “da questo momento si instaura un rapporto di predilezione con l’argilla, materiale che poi avrebbe contraddistinto tutto il suo percorso creativo, un legame mia interrotto e sempre più approfondito e rinnovato: da semplice supporto per prodotti di arte applicata, come nei primi lavori degli anni sessanta, vengono mano a mano esplorate tutte le potenzialità della terracotta, fino a farne lo strumento privilegiato con cui dare vita a espressioni artistiche pure”